Parte 1 - STORIA DELLA CORALE DI S. CECILIA - FUCECCHIO - di Mario Catastini a cura di Giacomo Pierozzi

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LA CORALE FUCECCHIESE DENOMINATA S. CECILIA
> parte 1 <
                                     

                      
1909. Anno magico per la storia della nostra comunità

In questo anno vennero alla luce, a Fucecchio, due personaggi di grande spicco: Indro Montanelli, giornalista e scrittore di fama mondiale, ed Egisto Donati, il fondatore della Corale S. Cecilia di Fucecchio.
Egisto era figlio di Gianni di Bicciolo e di Beppa Taviani.
Gianni di Bicciolo, calzolaio sui generis per la politezza dei suoi abiti e per l’acconciatura dei suoi capelli lisci sempre ben pettinati, era noto per la sua magnifica voce di basso e per la spiccata attitudine ad interpretare il ruolo del latin lover – era solito affermare che nessuna donna gli aveva mai resistito e che aveva incornato moltissimi fucecchiesi.
Gianni Donati aveva ereditato dal padre Bicciolo, un porta a pago della Misericordia locale, la passione per il canto. Infatti sia Gianni che il padre facevano parte delle due corali che operavano nel capoluogo: la laica “Giuseppe Verdi” diretta da Beppe Lotti, padre dell’indimenticabile Savino, e la religiosa “Schola cantorum” diretta da don Giuseppe Marradi, l’amatissimo Nanetto, cappellano del Monastero di S. Salvatore.
Gianni, sollecitato dai direttori delle due corali, subito dopo il suo matrimonio con Beppa, cominciò a prendere lezioni di canto dal M° Corso che aveva il proprio studio nel Palazzo del Gattino, attualmente sede della Contrada S. Andrea e della Fondazione Montanelli-Bassi.
Il maestro Corso non solo manifestò la sua ammirazione per Gianni di Bicciolo, ma addirittura gli garantì che nel giro di un paio di anni gli avrebbe procurato contratti stupefacenti con alcune compagnie di Opere Liriche che gli avrebbero consentito di calcare i palchi di numerosi  teatri Italiani ed europei.
Il futuro padre del fondatore della corale, in preda all’euforia, confessò alla moglie che il canto gli avrebbe fatto abbandonare per sempre il deschetto da calzolaio e li avrebbe resi benestanti.
Beppa lo congelò:
-Se darai retta la maestro Corso, io ritornerò a casa dei miei genitori e di te non vorrò più vedere nemmeno l’ombra!
Gianni, di fronte alla determinazione della sua Beppa, non stette a pensarci due volte.
-Preferisco rimanere con te. Al termine di questo mese cesserò anche di prendere lezioni dal maestro Corso- sentenziò Gianni.
Gianni rimase così ancorato al deschetto da calzolaio e alle due corali del capoluogo: la Verdi e la Schola cantorum.
La nascita del figlio Egisto fu salutata con grande entusiasmo da entrambi i coniugi.
Egisto si abituò ben presto alle nenie di mamma Beppa e alle sparate canore di papà Gianni che ai Kyrie alternava certi assolo lirici come “Vecchio t’inganni, un vindice avrai..” o certi canti corali della Tosca, del Rigoletto, dell’Aida, del Barbiere di Siviglia, della Cavalleria rusticana..
Fin dall’età di due ani il piccolo Egisto non sapeva nascondere la sua meraviglia per le esibizioni canore del padre. E questa meraviglia si amplificava quando il babbo duettava con nonno Bicciolo. Egisto li guardava e li ascoltava in preda ad un evidente senso di incanto.
All’età di tre anni si verificò la prima grande svolta nella vita del futuro realizzatore della Corale S. Cecilia.

Un’antica usanza della Corale Schola cantorum tramontata definitivamente

La sera del Giovedì Santo del 1912, Gianni Donati, padre del futuro fondatore della Corale S. Cecilia, portò alla moglie “Beppa” un “pan di ramerino”. Beppa apprezzò moltissimo quel gesto e naturalmente spartì il profumato pan di ramerino con lo sposo ed il piccolo Egisto.
-Ma stasera, Gianni, a che ora esci per andare a cantare il Miserere con la Corale?
-Verso le dieci.
-Ti prego di non fare come sempre le ore piccole. Ricordati che abbiamo un bambino ancora piccolo. Se si sentisse male, io non saprei davvero cosa fare.
Verso le ventidue passò babbo Bicciolo.
-È l’ora, Gianni – urlò babbo Bicciolo che stringeva con la mano destra tutti gli spartiti destinati ai “bassi”.
La corale preferì partire dalla chiesa di S. Salvatore ancora affollata di fedeli in adorazione del Santissimo, vi eseguì il suo primo Miserere e poi scese nella chiesa Collegiata. Uscita dalla chiesa, la corale fece la sua prima sosta sotto il lampione a carboncino che si trovava infilato nello spigolo del Palazzo Pretorio che faceva angolo fra la Piazza (oggi Vittorio Veneto) e via Borgo Valori. Ad attendere i coristi c’erano un paio di capannelli formati soprattutto da uomini. Uno di loro chiese ai coristi presso qual altro lampione acceso si sarebbero diretti.
-A quello che si trova all’inizio di Via Raimonda che scende fino ai frati.
Possiamo venirvi dietro?
-Ci fate un grande piacere – rispose ancora Bicciolo che si sentiva un po’ il responsabile della corale, visto che era il più anziano.
Raggiunta via Raimonda, la corale eseguì ancora il miserere.
-Siete stati veramente bravi! - osservò un fedele lì presente.
Una signora, vestita decorosamente, osservò:
-Sicuramente avrete sete. Se non vi offendete vi porterò un fiasco di vino.
-Brava, brava – intervenne ancora Bicciolo. La donna entrò nella sua abitazione e dopo appena due minuti riuscì fuori recando nelle mani un fiasco di vino rosso e due bicchieri. I coristi ringraziarono e si dissetarono seduta stante.
La corale si portò poi in chiesa La Vergine, fece altre due soste, in via Trieste e nell’attuale corso Matteotti. Poi si portò in chiesa di S. Maria delle Vedute, dopodiché cominciò a risalire verso la Collegiata.
La corale si sciolse verso il tocco e mezzo.
Gianni, per evitare i possibili rimbrotti della moglie, quando entrò nell’appartamento non accese neppure la candela. Si mosse al buio in cucina ed entrò nel letto senza neppure sfiorare la consorte.
Gianni, da sempre ammaliato dal miserere continuò a ripeterselo con la mente finché non si addormentò.
Alle sei del mattino ci pensò Egisto a svegliare i due sposi. Lui reclamava la colazione. Non c’erano nuvole nel cielo, l’aria era quasi tiepida: si annunciava un Venerdì Santo molto sereno.

Cominciò a seguire il babbo alle esibizioni delle due corali

-Voglio venire anch’io con te – protestava il piccolo Egisto quando il padre si preparava a raggiungere la chiesa Collegiata dove con molta frequenza si esibiva la Schola cantorum.
Gianni non poté dire di no al figlioletto. Fu così che anche Egisto ebbe accesso al coro dove veniva sistemata la corale. Egli cominciò a seguire con grande attenzione il direttore don Giuseppe Marradi, magro, il naso quasi grifagno, lo sguardo incredibilmente serio e compreso mentre dava il là ora ai tenori, ora ai bassi, ora ai baritoni e ai numerosi orchestrali che accompagnavano il suono dell’armonium.
Una sabato sera Gianni si preparò per andare all’arena Edison dove veniva realizzata l’opera lirica La Tosca. Gianni e gli altri della Verdi avrebbero cantato il famoso Te Deum del primo atto.
-Voglio venire anch’io – gridò Egisto.
-Non posso portarti sul palco. Il direttore Beppe non vuole nemmeno che ti porti alle nostre prove. Gliel’ho chiesto per due volte. Fatti portare all’arena da mamma e così potrai vedermi mentre canto insieme agli altri coristi.
-O Gianni, ma perché gli fai codesti discorsi. Lo sai che io non ci ho passione per le opere.
-Cattivi! – esclamò Egisto.
-Se ti calmi, domattina ti farò vedere una cosa tanto carina- gli promise il babbo.
-Gianniii, sei pronto? Sbrigati. Lo sai che Beppe vuole il rispetto degli orari – chiamò nonno Bicciolo dalla strada, scoppola in testa, pipa di radica tra le labbra e naso molto, ma molto camuso.
Gianni si affrettò ad uscire e a raggiungere con suo padre l’Arena Edison posta in via Roma.
Al mattino, erano da poco suonate le ore 8, quando il piccolo Egisto, capelli lisci ed acconciati con la discriminatura, disse a suo padre:
-Io voglio la sorpresa.
-Ti accontento subito.
Gianni ed il figlio si portarono nell’attuale piazza dei Caduti e si piazzarono davanti all’edificio che ospitava la Pretura. Alle ore 8,30 in punto uscirono otto persone vestite di scuro, cappello verde in testa e fazzoletto celeste al collo.
-Nonno! – gridò Egisto appena vide nonno Bicciolo.
Il nonno lo salutò alzando il braccio libero dalla tromba.
-Suona anche il nonno? – domandò Egisto.
-Sì, sì!- rispose seccamente Gianni.
Subito dopo uscì un signore che portava uno stendardo.
-O cos’è quello? – domandò il piccolo Donati indicando quella specie di scendiletto.
-È lo stendardo dei tiratori del tiro a segno.
Egisto non capì, ma parve non dare importanza alla risposta del babbo, incuriosito com’era dall’uscita dal portone del Palazzo di un nugolo di persone che reggevano degli astucci speciali che Egisto non aveva mai visto.
-Dentro quelle borse – anticipò Gianni – ci sono le armi dei tiratori.
Un tiratore fece trillare il suo fischietto. Immediatamente si mosse il portatore dello stendardo e dietro di lui gli otto della fanfara che cominciarono a suonare una specie di marcia che fece affacciare alle finestre le persone di Via Donateschi e delle altre vie del capoluogo che il corteo percorse prima ti portarsi al campo di Tiro a segno posto poco dopo il cimitero. Egisto avrebbe voluto accodarsi o magari precedere il corteo per vedere suo nonno Bicciolo alle prese con la tromba. Gianni, con un movimento della testa gli fece capire, che non era il caso di accodarsi.
Il poligono di tiro a segno era stato inaugurato una ventina di anni prima e precisamente nel 1892, quando, in contemporanea, venne scoperto il monumento a Giuseppe Montanelli e fu inaugurata anche l’attuale piazza dell’ospedale fino all’anno precedente occupata dalla cadente chiesa e dal malridotto monastero di S. Andrea.
Mentre ritornavano a casa, Gianni sorrise fra di sé. Egisto se ne accorse e gli chiese:
-Di cosa ridi?
-Nonno suona la tromba e non conosce un’acca della musica.
Egisto non capì. Fu però colpito dalla parola musica, la sua futura amante come l’avrebbe chiamata il violinista Ottorino Freschi. Anche altri tre o quattro degli otto della fanfara suonavano la tromba senza conoscere la musica. I tiratori li avevano ingaggiati perché il compenso che veniva loro corrisposto era misero nonostante la lunghezza del percorso. Se avessero arruolato dei suonatori della banda avrebbero speso troppo. Gianni conosceva benissimo il trucco che anche suo padre doveva usare. Ogni fanfarista aveva dei punti riferimento come ad esempio il primo capitello della piazzetta dei ferri, l’orologeria del Chiari. la scala esterna del palazzo di via Donateschi etc. Quando arrivavano al primo segnale dovevano risollevare il pistone della tromba. Poi dovevano riabbassarlo quando raggiungevano l’orologeria e così via. Il corteo si scioglieva appena veniva raggiunto il campo del Tiro a segno.
Egisto, appena messo piede in casa, raccontò tutto alla mamma che lo ascoltò con molta attenzione.
-Ma cos’è, mamma, la musica? – le chiese Egisto.
-Figliolo mio, io non me ne intendo. È meglio che tu lo chieda a tuo padre.

Nonno Bicciolo era anche un porta a pago

Gianni esercitava il suo mestiere da solo, in uno sgabuzzino al piano terra di via Castruccio.
Egisto, di ormai cinque anni, si recava molto spesso nella bottega del padre con la speranza di udirlo cantare. Anche quella mattina il piccolo Egisto si portò nella botteghina del babbo, si sedette su di un piccolo sgabello e cominciò ad osservare il padre che stava cucendo la suola di uno scarpone di vacchetta usando uno spago ben impeciato alle cui estremità erano state aggiunte due setole. Gianni infilava la punta acuminata della sua lesina nella tramezzola di cuoio: questa, spinta dalla mano di Gianni penetrava ed attraversava lo spessore della suola di oltre un centimetro e fuoriusciva all’interno dell’increno praticato nel cuoio della suola; a questo punto Gianni estraeva la lesina dalla suola ed infilava nel buco da essa praticato le setole poste alle due estremità dello spago, lo tirava e lo stringeva aiutandosi con un manale di cuoio infilato nella mano sinistra e col pomello di legno della lesina a cui faceva aderire lo spago impeciato. Ogni punto, non più lungo di un quarto di centimetro, saldava ermeticamente la suola alla tramezzola posta intorno alla pianta della scarpa.
Egisto osservava ammirato il padre, che ad ogni sforzo sollevava le labbra che lasciavano intravedere una chiostra di denti perfetta. L’odore del cuoio bagnato e battuto col martello annullava l’effluvio del profumo dei fiori che attraverso la Porta di S. Andrea si effondeva per tutta la via, magnifica per i suoi monumentali palazzi disposti specialmente sul lato che guarda il monte pisano.
Verso le dieci si presentò nonno Bicciolo che, visto il piccolo Egisto, con tono di rimprovero disse a suo figlio Gianni:
-Ma perché, invece di tenerlo qui, in questo sgabuzzino, fetido, non lo mandi all’asilo che è qui a due passi?
-O babbo, te l’ho già detto tante volte: la mia Beppa non vuol saperne di mandarcelo. Se avesse potuto mandarlo all’asilo delle monache , sul Poggio Salamartano, non ci avrebbe pensato su due volte; ma l’asilo delle monache è riservato esclusivamente alle bambine.
-Mah! – sbuffò Bicciolo.
Proprio in quel momento passò davanti al botteghino Nanni che, visto Bicciolo, esclamò:
-Guàh! Proprio te! Stasera alle tre c’è da portà’ via una morta di Valdarnese. Alle due e mezzo dobbiamo trovarci in sede. Hai capito?
-Ma dov’è la morta? – chiese Bicciolo.
-O dove vuoi che sia? È alla cappellina.
Nanni proseguì verso la torre di Castruccio.
-Ci voleva proprio un morto! –commentò Bicciolo che continuò – Ce ne vorrebbe uno tutti i giorni, almeno guadagnerei qualcosa di consistente
-O nonno, ma non te le rovini le spalle a portare sulla lettiga i morti fino al cimitero? – domando Egisto.
-Macché- tagliò corto Bicciolo – Sul braccio di legno che poggia sulla spalla ci hanno messo una imbottitura protetta dalla pelle che si usa per le tomaia delle scarpe. Il peso viene suddiviso fra tutti e quattro i portatori. Le casse da morto dei poveri pesano pochissimi chili: son fatte di tavolette di legno grezzo fermate con i chiodi. Mi dà fastidio indossare la cappa nera con quel cappuccio che dobbiamo sempre calare sulla testa. Ma vale la pena. Con quello che guadagno ci posso comprare il tabacco per la mia pipa per quindici giorni.
-Ma la cappa nera la tieni in casa, nonno? – chiese il nipotino.
-No. L’abbiamo in sede, sul Poggio Salamartano, sulla sinistra della chiesa delle monache. Ogni portatore ha un suo cassetto. Lì dentro c’è la nostra cappa.
-E per entrare nella stanza dove sono i cassetti come fai? C’hai la chiave?
-No, no. Ci pensa il Lilli ad aprirci. Lui è il custode del palazzo della Misericordia. Addirittura ci abita all’ultimo piano. Ora ti ho detto tutto. Ci vediamo, Gianni.

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